TRIBUNALE DI CAGLIARI, 27 giugno 1995, n.1022 — Fundoni Presidente
– Tamponi Estensore
Contratto
in genere — Rappresentanza senza potere — Fattispecie — Sussistenza.
(Cod.
civ., art. 1398)
Contratto
in genere — Rappresentanza senza potere — Ratifica tacita — Fattispecie
— Sussistenza.
(Cod.
civ., art. 1399)
È riconducibile alla figura della rappresentanza senza potere
l’attività fraudolenta del dipendente di banca il quale, senza esservi
legittimato, ritiri dai clienti messi in fila davanti agli sportelli i moduli e
le somme destinate al pagamento delle imposte, intascando il denaro e
rilasciando false quietanze in nome dell’istituto di credito.
(1)
Il soggetto falsamente rappresentato, il quale adempie l’obbligazione
assunta in suo nome dal falsus
procurator, ratifica implicitamente
l’operato di questi, esprimendo in maniera chiara ed univoca la volontà di
fare propri gli effetti dell’attività contrattuale precedentemente svolta dal
rappresentante senza potere. (2)
(1-2) Note in tema di rappresentanza senza potere, ratifica tacita ed apparenza del diritto.
La
sentenza in commento, pronunciata dal Tribunale in sede di opposizione ad
ingiunzione fiscale, si riferisce ad un caso assai singolare. All’interno dei
locali di un istituto di credito, alcuni clienti, in attesa di effettuare i
versamenti delle imposte dirette tramite delega bancaria ([1]),
vengono avvicinati da un inserviente dello stesso istituto, il quale, traendo in
inganno il pubblico circa l’esatta natura del proprio incarico, riesce senza
difficoltà a farsi consegnare i moduli già compilati e le somme occorrenti per
i pagamenti. Egli si appropria quindi del denaro e distrugge i documenti
destinati alla banca, restituendo ai clienti le copie della delega, da lui
stesso firmate per il cassiere con sigla non identificabile.
Venuto
alla luce il fatto e smascherato il truffatore — il quale verrà poi giudicato
responsabile di truffa e falso in sede penale —, l’azienda bancaria si
determina ad attuare comunque lo schema delegatorio, adempiendo le obbligazioni
fiscali pur in difetto di un efficace rapporto di provvista tra sé ed i
soggetti raggirati. Un diverso atteggiamento, del resto, non farebbe che mettere
a repentaglio gli stessi rapporti con i clienti, legittimati in ogni caso a
pretendere dalla banca il ristoro dei danni subiti ([2]).
L’adempimento, tuttavia, ha luogo per la sola parte capitale del debito, non
anche per gli interessi moratori maturati nel frattempo, i quali costituiscono,
appunto, oggetto delle cinque ingiunzioni fiscali emesse dall’amministrazione
finanziaria nei confronti dell’istituto di credito.
Nel
rigettare l’opposizione dell’ingiunto, i giudici ascrivono la fattispecie
indicata all’area della rappresentanza senza potere (art. 1398 cod. civ.), constatando che
l’inserviente, privo degli adeguati poteri rappresentativi, ha svolto una
determinata attività negoziale in nome del proprio datore di lavoro ([3]).
In un simile contesto, la successiva materiale esecuzione degli accordi da parte
dell’istituto di credito assume il valore di una implicita ratifica, la quale
consente di ricollegare al soggetto falsamente rappresentato, sin dal loro
sorgere, tutte le obbligazioni assunte in suo nome dal falsus
procurator, ovviando alla iniziale carenza di legittimazione di
quest’ultimo (art. 1399 cod. civ.) ([4]).
La
soluzione si pone in linea con l’opinione dominante, che ammette, in generale,
la possibilità di una ratifica tacita ([5]),
salvo sempre il limite costituito dalla forma solenne del negozio da ratificare
([6]).
In particolare, nel caso in esame, accertata l’obiettiva univocità del
comportamento del dominus ([7]),
il Collegio vi ha ricollegato una corrispondente volontà negoziale, la quale,
peraltro, è stata mantenuta su un piano ben distinto rispetto all’atto in
senso stretto rappresentato dall’adempimento ([8]).
Malgrado
nella pronuncia non si faccia alcun riferimento alla figura della rappresentanza
apparente ([9]), vale comunque la pena di
chiedersi se la fattispecie in oggetto vi si possa o meno identificare.
Per
introdurre in maniera esauriente l’argomento dell’apparenza ([10]), conviene prendere le
mosse dal principio-cardine della certezza dei rapporti giuridici, il quale,
come è noto, viene attuato dall’ordinamento attraverso tutta una serie di
strumenti; primo fra tutti quello della pubblicità. Volendo ora fare un
paragone tra la pubblicità e l’apparenza, si può affermare che mentre la
prima ricopre un ruolo divulgativo di fatti veri, la seconda presuppone, al
contrario, che la finzione prevalga sulla realtà, determinando effetti
giuridici autonomi. Malgrado questa sua posizione di formale antinomia rispetto
al sistema, l’apparenza tuttavia ben si armonizza con esso, svolgendovi la
funzione di criterio residuale, applicabile tutte le volte in cui un determinato
conflitto intersoggettivo non possa obiettivamente risolversi attraverso il
semplice riferimento alla realtà ([11]).
Il principio, in altre parole, “abbraccia tutti quei casi in cui l’atto
compiuto dal terzo con un soggetto che non è titolare del diritto è ugualmente
efficace, come se fosse compiuto col titolare, purché un titolo di formale
investitura del soggetto crei una situazione di affidamento del terzo” ([12]).
Tornando
alla fattispecie poc’anzi indicata, va osservato come essa presenti tutti i
requisiti necessari ai fini di una lettura in termini di apparenza del diritto:
l’obiettiva verosimiglianza della realtà fattuale ad una differente realtà
giuridica, tale da ingenerare falsi affidamenti nei terzi di buona fede;
l’errore incolpevole di questi ultimi ([13]),
causalmente ricollegabile all’inerzia dell’azienda bancaria, la quale ha
appunto omesso di attivarsi per porre termine all’ambigua situazione. In
merito a quest’ultimo profilo, è bene chiarire come la giurisprudenza
tradizionale sia decisamente concorde nell’attribuire rilievo alla sola
apparenza c.d. colposa,
contraddistinta cioè da una condotta maliziosa
o negligente del preteso
rappresentato, la quale sottintenda una inesistente volontà di conferire degli
effettivi poteri rappresentativi al falsus
procurator ([14]).
Esclusa
a priori la possibilità di
configurare una presunzione assoluta di colpa (in
vigilando o in eligendo) in capo alla banca sulla base del rapporto di
preposizione che lega quest’ultima al proprio dipendente ([15]),
l’elemento soggettivo richiesto potrebbe dunque porsi in discussione, non
risultando in maniera esplicita dal testo della sentenza. Ma al di là di
scontati giudizi formalistici, tesi a far coincidere esattamente fatto illecito
del commesso ed obiettiva violazione di regole di condotta da parte del datore
di lavoro, sembra invece ragionevole propendere per una sostanziale fungibilità,
anche in questo campo, tra il criterio soggettivo di imputazione e quello
oggettivo legislativamente predeterminato. Entrambi, infatti, svolgono
alternativamente la medesima funzione attuativa del principio di
autoresponsabilità; naturale fondamento, questo, di ogni pronuncia che
privilegi il dato esteriore rispetto a quello reale ([16]).
La
sostanziale ambivalenza della situazione esaminata offre, infine, lo spunto per
svolgere alcune considerazioni di ordine generale in merito al rapporto tra
procura tacita e procura apparente ([17]),
il quale è sicuramente definibile in termini di affinità. Entrambe le figure,
infatti, presuppongono un giudizio teso alla tutela dell’affidamento, da
svolgersi alla luce dei già ricordati principi di autoresponsabilità e di
certezza del diritto ([18]).
Mentre però in un caso l’accertamento si limita formalmente a riscontrare
l’esistenza di una determinata volontà negoziale, desumendola sic
et simpliciter dal comportamento materiale di un soggetto, nell’altro,
viceversa, l’indagine muove dall’accertamento della situazione apparente,
per poi affermare in modo esplicito l’irrilevanza del momento volitivo: sussistono
le condizioni affinché possa essere attribuita immediata efficacia al negozio
stipulato dal rappresentante senza potere, a prescindere da una successiva
ratifica del falso rappresentato.
In
ragione di ciò, è possibile affermare che il riferimento alla categoria
giuridica dell’apparenza, anche laddove — come nell’ipotesi in questione
— non sia strettamente necessario, risulta pur sempre metodologicamente più
corretto, poiché esclude a priori il pericolo di un qualsiasi conflitto tra dichiarato
e voluto ([19]).
L’ordinamento giuridicamente maturo è quello che sposa sempre la soluzione più
lineare, senza mai adottare il passe
partout della finzione.
Filippo Nissardi
([2]) Se infatti la lesione del loro interesse fosse divenuta attuale, la banca avrebbe potuto rispondere dell’illecito del proprio dipendente non solo sotto il profilo aquiliano (art. 2049 cod. civ.), ma anche dal punto di vista contrattuale (art. 1228 cod. civ.), nell’ambito dei diversi rapporti di conto corrente.
([3]) Cfr., in generale, R. SACCO, G. DE NOVA, La rappresentanza, in Trattato di dir. priv., diretto da Rescigno, 10, Torino, 1982, p. 397 ss.
([4]) Dall’efficacia ex tunc della ratifica consegue, pertanto, la possibilità di imputare all’istituto di credito l’obbligo relativo alla penale del 2% giornaliero, prevista dall’art. l7, u. c., l. 576/1975.
([5]) Cass., 19 maggio 1989, n. 2406, in Giust civ., 1989, I, p. 2605; Cass., 22 gennaio 1986, n. 400, in Giur. comm., 1986, II, p. 783, con nota di G. FAUCEGLIA; Cass., 23 febbraio 1983, n. 1397, in Rep Foro it., 1983, voce Rappresentanza nei contratti, n. 9.
([6]) Cfr. Cass., 15 novembre 1994, n. 9368, in Rep. Foro it., 1994, voce Rappresentanza nei contratti, n. 5; Cass., 3 novembre 1994, n. 1037, ivi, 1994, voce cit., n. 6; Cass., 18 marzo 1989, n. 1365, ivi, 1989, voce cit., n. 7; Cass., 30 luglio 1982, n. 4361, ivi, 1983, voce cit., n. 5; Cass., 11 ottobre 1991, n. 10709, in Foro it., 1992, I, c. 1833; Cass., 14 maggio 1990, n. 4118, ivi, 1991, I, c. 1191, con nota di F. CASO. Anche in questi casi, tuttavia, la ratifica può emergere incidentalmente da un documento redatto ad altri fini, il quale implichi una volontà del dominus, incompatibile con quella di rifiutare l’atto del rappresentante senza potere: v. Cass., 19 maggio 1989, n. 2406, cit.
([7]) Premesso che l’indagine del giudice di merito circa l’esistenza della ratifica costituisce oggetto di un giudizio di fatto, come tale insindacabile in sede di legittimità (Cass., 20 gennaio 1984, n. 501, in Giust. civ., 1984, I, p. 2842, con nota di M. FORNACIARI; Cass., 6 gennaio 1981, n. 61, in Foro it., 1981, I, c. 2246; Cass., 25 gennaio 1975, n. 299, in Rep. Foro it., 1975, voce Rappresentanza nei contratti, n. 11; permane, tuttavia, in capo ai membri della Suprema Corte, la facoltà di cassare le decisioni di merito per difetto di motivazione: cfr. Cass., 25 luglio 1980, n. 4821, in Giust. civ., 1980, II, p. 2402), sembra opportuno rilevare che questa valutazione, nel concreto, non poteva essere in alcun modo condizionata dal conflitto di interessi tra rappresentato e falsus procurator, poiché esso attiene essenzialmente al piano dei rapporti interni tra i due soggetti. La predetta situazione di conflitto, inoltre, non sembra nemmeno costituire un indice alla luce del quale interpretare il comportamento dell’istituto di credito, giacché il diritto di confermare l’operato del falsus procurator implica necessariamente la presenza di un autonomo potere deliberativo in capo al dominus, il quale è anche in grado di rinunciare, qualora lo ritenga opportuno, alla tutela attribuitagli di volta in volta dall’ordinamento (cfr. artt. 1394 e 1398 cod. civ.). Così, ad esempio, se è vero che “chi gestisce, di sua iniziativa e senza autorizzazione del titolare, un affare altrui nell’interesse proprio, non compie una negotiorum gestio” (così Trib. Torino, 18 novembre 1992, in Giur. it., 1993, I, c. 193), deve, d’altro canto, sottolinearsi come il mancato perfezionamento della fattispecie ex art 2028 cod. civ. non impedisca di per sé, al dominus che ne sia al corrente, di effettuare ugualmente una valida ratifica (cfr. Cass., 23 luglio 1960, n. 2122, in Giur. it., 1963, I, 1, p. 92). Per un esame dei rapporti tra le diverse ipotesi di ratifica disciplinate dal codice, cfr. A. LUMINOSO, Il mandato e la commissione, in Trattato di dir. priv., diretto da Rescigno, 12, Torino, 1985, p. 184 ss.
([8]) Si osservi che l’effetto retroattivo della ratifica impedisce di considerare il pagamento alla stregua di un adempimento del terzo ai sensi dell’art. 1180 cod. civ.: figura, questa, cui la dottrina prevalente attribuisce natura negoziale (cfr. R. NICOLÒ, voce Adempimento, in Enc dir., I, Milano, 1958, p. 565 ss.).
([9]) Cfr. in materia: C. M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1987, p. 121 ss.; F. GALGANO, Il negozio giuridico, Milano, 1988, p. 323 ss. Per un’analisi del fenomeno sotto la disciplina previgente, cfr. R. NICOLÒ, Procura apparente, in Raccolta di scritti, Milano, 1980, I, p. 359 ss. (già pubblicato in Foro Lomb., 1935).
([10]) Sul quale v, in generale: M. D’AMELIO, voce Apparenza del diritto, in Noviss. Digesto it., I, 1, Torino, 1957, p. 714 ss.; A. FALZEA, voce Apparenza, in Enc. Dir., II, Milano, 1958, p. 682 ss.; R. SACCO, voce Apparenza, in Digesto delle discipline privatistiche — Sez. civile, I, Torino, 1987, p. 353 ss.
([13]) Deve, a tal proposito, registrarsi una netta tendenza degli organi giudicanti a valutare in maniera sempre meno severa gli oneri di informazione incombenti sui terzi. In questo senso, non ci si limita più a negare che il mancato svolgimento del controllo ex art. 1393 cod. civ. implichi di per sé l’inescusabilità dell’errore (Cass., 12 luglio 1965, n. 1447, in Foro it., 1966, I, c. 339), ma ci si spinge ben oltre, fino a sostenere che “L’apparenza del diritto può essere invocata anche quando la situazione apparente non coincide con quella risultante dai pubblici registri, ove questa non venga in rilievo direttamente, ma solo come presupposto della situazione complessa, rilevante autonomamente sul piano giuridico” (Cass., 14 febbraio 1981, n. 907, in Giust. civ., 1981, II, p. 2998, con nota contraria di E. RAGANELLI). Più recentemente, l’irrilevanza di un sistema di pubblicità è stata ribadita con specifico riferimento al settore commerciale (Cass., 19 settembre 1995, n. 9902, in Guida al Diritto de Il Sole 24 ore, 18 novembre 1995, n. 44, con nota di R. ZANABONI). Solo la prescrizione della forma solenne sembra ancora arginare validamente il principio in questione (Cass., 17 marzo 1975, n. 1020, in Giur. it., 1976, I, 1, c. 797, con nota di G. STOLFI ed in Foro it., 1975, I, c. 2267, con nota di L. DI LALLA).
([14]) Cfr. Cass., 17 marzo 1975, n. 1020, cit.; App. Milano, 13 ottobre 1983, in Giur. it., 1984, II, c. 768, con nota di A CINCOTTI; Cass., 12 luglio 1965, n. 1447, cit.; Cass., 14 dicembre 1957, n. 4703, in Foro it., 1958, I, c. 390.
([15]) Cfr. L. BIGLIAZZI GERI, U. BRECCIA, F. D. BUSNELLI, U. NATOLI, Diritto civile, 3, Torino, 1992, p. 736 ss. In passato, l’operatività del principio di apparenza era valutata alla stregua di una sanzione posta in capo al dominus, cui si rimproverava, alternativamente, un atteggiamento colpevole ai sensi dell’art. 2049 cod. civ. o la negligente inosservanza del dovere di informazione, sancito dall’art. 1338 cod. civ. in tema di responsabilità precontrattuale (in quest’ultimo senso, v. R. SACCO, Responsabilità del committente per culpa in contrahendo del commesso, in Riv. dir. comm., 1948, II, p. 4).
([16]) Così C. M. BIANCA, op. cit., p. 121, nota 219. Anche in giurisprudenza, le decisioni basate sul mero nesso di causalità non mancano: cfr. Cass., 7 luglio 1995, n. 7501, in Guida al Diritto de Il Sole 24 ore, 23 settembre 1995, n. 37, p. 45, con nota di G. BRUNO Cass., 17 ottobre 1978, n. 4645, in Rep. Foro it., 1978, voce Rappresentanza ne i contratti, n. 21; Cass., 3 febbraio 1984, n. 821, in Rep. Foro it., 1984, voce Rappresentanza nei contratti, n. 12,.
([17]) Su cui v. anche R. MOSCHELLA, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, Milano, 1973, p. 181 ss.
([18]) Da qui la comune assoggettabilità alla disciplina dettata dagli artt. 1414 e 1415 cod. civ. in materia di simulazione, a prescindere dalla effettiva sussistenza di un accordo simulatorio tra rappresentato e rappresentante: cfr. F. GALGANO, op. cit., p. 324 ss., secondo il quale “procura apparente altro non è […] se non procura tacita simulata”.
([19]) Che l’argomento dell’apparenza si risolva, in fondo, nel “solito problema dei rapporti tra volontà e dichiarazione e della disciplina della loro eventuale divergenza” è cosa già da tempo assodata. L’alternativa tra le due soluzioni, tuttavia, è sempre stata risolta dalla dottrina tradizionale mediante “l’applicazione integrale di quei principi generali ormai definitivamente consolidati” (R. NICOLÒ, Procura apparente, cit., p. 377). In questo senso v. anche A. TORRENTE, in nota a Cass., 14 dicembre 1957, n. 4703, cit.