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TRIBUNALE DI CAGLIARI, 28 agosto 1995, n.1276 — Pisotti Presidente – Marogna Estensore

 

Avvocato e procuratore — Opposizione al decreto ingiuntivo riguardante onorari — Procedimento ordinario — Necessità.

(r. d. l. 27 novembre 1933 n. 1578, art. 68; l. 13 giugno 1942, n. 794, artt. 28, 29, 30)

 

Avvocato e procuratore —Transazione definitiva di giudizio — Fattispecie — Sussistenza.

(r. d. l. 27 novembre 1933 n. 1578 art. 68)

 

            Assume natura sostanziale di sentenza, ed è come tale sottoposto agli ordinari mezzi di impugnazione, il provvedimento che conclude una opposizione al decreto ingiuntivo emesso contro la parte di un giudizio definito con transazione, a favore dell’avvocato che ha svolto il suo patrocinio in tale giudizio, qualora le contestazioni abbiano avuto ad oggetto la natura solidale dell’obbligo gravante sull’opponente (1).

            Ai fini della individuazione della transazione conclusiva del giudizio, nell’ambito della disciplina (art. 68, r. d. l. 27 novembre 1933, n. 1578) relativa ai compensi spettanti agli avvocati ed ai procuratori, non occorre una indagine circa la presenza della fattispecie indicata dagli artt. 1965 ss. cod. civ., bastando semplicemente che tra le parti sia intervenuto un accordo che abbia determinato l’estinzione della lite senza l’intervento del giudice (2).

 

(1-2) Definizione transattiva del giudizio e onorari di causa.

            1.            L’art. 68 del r. d. l. 27 novembre 1933, n. 1578, stabilisce che le parti di un giudizio definito con transazione sono obbligate in solido “al pagamento degli onorari e al rimborso delle spese di cui gli avvocati ed i procuratori che hanno partecipato al giudizio negli ultimi tre anni fossero tuttora creditori per il giudizio stesso” ([1]).

            La pronuncia che si annota si occupa dell’ipotesi in cui il difensore non eserciti la pretesa creditoria verso il proprio assistito, ma faccia valere il proprio diritto nei confronti dell’altra parte ([2]). Il professionista chiede ed ottiene l’emissione di un decreto ingiuntivo, contro il quale viene proposta opposizione dall’ingiunto, il quale successivamente propone appello, dinanzi al Tribunale, per ottenere una riforma del provvedimento che rigettava l’opposizione, ma anche ora senza successo.

            In via preliminare, i giudici affrontano la questione relativa all’ammissibilità dell’impugnazione. Secondo l’appellato, infatti, il caso concreto rientrerebbe nell’area applicativa dell’art. 30, l. 13 giugno 1942, n. 794, ove si afferma che il provvedimento conclusivo del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo avente ad oggetto “onorari, diritti o spese spettanti ad avvocati e procuratori per prestazioni giudiziali”, costituisce un’ordinanza soggetta al solo ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 111 cod. proc. civ. ([3]).

            L’eccezione viene però rigettata, ritenendosi che la suddetta inappellabilità rappresenti un carattere connesso in modo inscindibile alla natura speciale del procedimento regolato dagli artt. 28 e 29 della legge n. 794 ([4]). Questo, infatti, secondo un’opinione ormai pacifica, trova spazio nelle sole ipotesi in cui, in sede di opposizione, l’oggetto della controversia sia rimasto limitato al quantum delle pretese facenti capo al legale. Nel caso in esame, viceversa, le contestazioni avevano senz’altro oltrepassato tale confine, investendo (l’esistenza del negozio transattivo, e conseguentemente) gli stessi presupposti del diritto fatto valere tramite procedimento monitorio ([5]).

 

            2.            Con il gravame, l’appellante negava che si fosse mai realizzata la fattispecie di cui all’art. 68 della legge forense, sostenendo, in particolare, che la lite si sarebbe conclusa a seguito di una semplice remissione del debito, e non in forza di una transazione. La tesi viene tuttavia rigettata dai giudici, i quali considerano decisive, ai fini dell’accertamento del fatto, le dichiarazioni rilasciate dalle parti in udienza, nell’ambito di quel giudizio.

            Esclusa la necessità di una prova scritta dell’accordo stragiudiziale conclusivo della lite (cfr. art. 1967 cod. civ.) ([6]), il Collegio ha considerato pertanto inapplicabili rispetto al caso concreto gli ordinari principi in tema di transazione, con ciò facendo propria una tesi diffusa in giurisprudenza ([7]). È infatti opinione comune che la transazione prevista dall’art. 68 della legge forense rappresenti una figura distinta e più ampia rispetto all’omonima fattispecie di cui agli artt. 1965 ss. cod. civ., riguardando essa qualsiasi accordo che determini l’estinzione della lite ([8]) senza l’intervento del giudice ([9]). Ciò dipende, senza dubbio, dal grande divario esistente tra le due discipline dal punto di vista della funzione svolta: mentre infatti l’istituto codicistico risulta ispirato all’esigenza di realizzare un controllo generale sull’autonomia privata, a prescindere dalla tutela di interessi particolari, l’art. 68, viceversa, mira essenzialmente alla salvaguardia del diritto di avvocati e procuratori a percepire comunque il proprio compenso, oltre al rimborso delle spese sostenute, a prescindere da eventuali aggiustamenti con cui le parti intendessero sottrarsi alle loro legittime pretese ([10]).

            Posto dunque che le due figure di transazione si situano su piani differenti, la possibilità di operare un confronto diretto risulta assai limitata. La sola caratteristica comune ad entrambe sembra infatti essere data dalla stessa presenza dell’accordo in ordine ad una controversia che vede come protagoniste le parti ([11]). A guardar bene, l’art. 68, in virtù della sua natura processuale, non pare nemmeno esigere l’oggettiva validità dell’intesa che conclude il giudizio, accontentandosi della sua concreta efficacia: non c’è ragione per attribuire in quest’ambito ai vizi negoziali una rilevanza autonoma, che prescinda dall’attività ricognitiva del giudice e da quella propositiva delle parti ([12]). Logica vuole, poi, che una riapertura del giudizio a seguito dell’annullamento o della dichiarazione di nullità della transazione determini il venir meno ex tunc del vincolo di solidarietà tra le obbligazioni dei clienti ([13]). Ugualmente dicasi per i casi di risoluzione e rescissione del contratto.

            Una volta constatato quale grande distanza separi le due nozioni, è facile peraltro concludere per una potenziale idoneità di quella più ampia ad accogliere in sé anche ipotesi effettivamente ascrivibili all’area della transazione in senso stretto. Ciò avviene quando un accordo rispondente a tutti i requisiti previsti dal codice esaurisce completamente la materia del contendere, sia per il petitum che per le spese ([14]), facendo venir meno la necessità di una sentenza del giudice sull’oggetto della causa: risultato, questo, ottenibile anche per mezzo di un negozio extraprocessuale ([15]), a condizione che il relativo documento probatorio venga poi prodotto in giudizio ([16]). L’area applicativa dell’art. 68 viene inoltre pacificamente estesa al fenomeno della conciliazione giudiziale, a sua volta suscettibile di identificarsi nella transazione stricto sensu ([17]).

            La norma in esame non è invece riferibile alla rinuncia agli atti del giudizio, la quale determina l’estinzione del processo solo se “accettata dalle parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione di esso” (art. 306, comma 1°, cod. proc. civ.) ([18]). L’istituto, infatti, costituendo la fonte di “effetti predeterminati e puramente processuali” ([19]), risulta di per se stesso privo di contenuto negoziale, determinando conseguentemente l’applicazione del criterio della soccombenza (art. 306, comma 4°, cod. proc. civ.). Ciò non toglie, però, che la rinuncia possa in concreto avvenire in esecuzione di un precedente accordo stragiudiziale, finalizzato proprio all’elusione dell’art. 68. In tal caso, qualora il difensore riesca a fornire la non facile prova ([20]) di un intento frodatorio comune ad attore e convenuto, egli tornerà ad essere creditore nei confronti di entrambi, prevalendo il criterio sostanziale sulle forme processuali ([21]).

Filippo Nissardi

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([1]) Si soffermano sulla norma: R. DANOVI, Saggi sulla deontologia e professione forense (alla ricerca della professionalità), Milano, 1987, p. 195 ss.; M. CORRADI, Le spese nel processo civile, Milano, 1991, p. 237 ss.

([2]) La disposizione in esame, proprio in virtù della sua idoneità a creare obblighi in capo a soggetti estranei rispetto al rapporto tra cliente e professionista, è stata spesso giudicata in contrasto col principio di uguaglianza. Le diverse questioni di legittimità sollevate nel corso degli anni dai giudici di merito, tuttavia, sono sempre state dichiarate infondate o inammisibili dalla Corte Costituzionale: v. Corte Cost., 15 maggio 1974, n. 132, in Giust. civ., 1974, III, p. 246; Corte Cost., 2 maggio 1985, n. 130, in Giur. cost., 1985, I, p. 925; Corte Cost., 18 novembre 1986, n. 238, in Giur. cost., 1986, I, 2, p. 2064; Corte Cost., 16 luglio 1987, n. 272, in Foro it., 1989, I, c. 668. V. sul punto anche R. DANOVI, op. cit., p. 202 ss.

([3]) La stessa norma trova pacifica applicazione quando il provvedimento viene emesso in forma di sentenza: cfr. Cass., 15 marzo 1994, n. 2456, in Rep Foro it., 1994, voce Avvocato, n. 111; Cass., 7 marzo 1983, n. 1680, ivi, 1983, voce cit., n. 166.

([4]) Cfr. S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, libro IV, 1, Milano, 1968, p. 28; C. RUPERTO, Gli onorari di avvocato e di procuratore, Milano, 1991, p.114.

In giurisprudenza, cfr. Cass., 23 dicembre 1993, n. 12748, in Giur. it., 1994, I, 1, p. 1167; Pret. Roma, 24 novembre 1982, in Foro it., 1983, I, c. 502; Cass., 16 luglio 1994, n. 6700, in Rep. Foro it., 1994, voce Avvocato, n. 105; Cass., 20 aprile 1993, n. 4619, ivi, 1993, voce cit., n. 94; Cass., 6 settembre 1991, n. 9381, ivi, 1991, voce cit., n. 78; Cass., 25 novembre 1985, n. 5857, ivi, 1985, voce cit., n. 83; Cass., 20 agosto 1981, n. 4955, ivi, 1981, voce cit., n. 173; Cass., 12 aprile 1979, n. 2178, ivi, 1979, voce cit., n. 191. Un orientamento ormai superato, invece, escludeva a priori l’applicabilità del regime speciale tutte le volte in cui l’ingiunzione fosse stata emessa nei confronti della parte avversa: cfr. Trib. Genova, 26 aprile 1950, in Foro it., 1951, I, c. 843; Cass., 16 dicembre 1953, n. 3727, in Giust. civ., 1953, p. 3436; Cass., 26 ottobre 1954, n. 4136, ivi, 1954, p. 2689.

([5]) L’applicabilità degli artt. 28-30 della legge n. 794 del 1942 deve pertanto escludersi ogniqualvolta venga contestato l’an della pretesa avversaria; il che può anche avvenire sulla base di una transazione novativa del rapporto, precedentemente conclusa col professionista (Cass., 12 aprile 1979, n. 2178, cit.). Ostano alla celebrazione del rito speciale le eccezioni riguardanti l’esistenza (ma non la durata) del mandato difensivo (Cass., 16 luglio 1994, n. 6700, in Rep. Foro it., 1994, voce Avvocato, n. 104), così come quelle di compensazione per un credito non liquido o non esigibile (Cass., 23 dicembre 1993, n. 12748, cit.). Il rito ordinario ha ragion d’essere anche in caso di pretese risarcitorie avanzate in via riconvenzionale per asserita condotta negligente o imperita del professionista (Cass., 15 marzo 1994, n. 2456, cit.); non invece quando la domanda riconvenzionale è tesa semplicemente ad ottenere la restituzione di somme già corrisposte al legale, per la parte che eccede quanto effettivamente dovuto per diritti e onorari (Cass., 16 luglio 1994, n. 6700, in Rep. Foro it., 1994, voce Avvocato, n. 105).

([6]) La questione merita peraltro maggiore attenzione: v. infra, nota 16.

([7]) Cfr. Cass., 17 novembre 1979, n. 5980, in Rep. Foro it., 1979, voce Avvocato, n. 202; Cass., 9 marzo 1973, n. 660, ivi, 1973, voce cit., n. 105; Cass., 10 giugno 1948, n. 878, in Mass. Giur. it., 1948, p. 215; Cass., 9 agosto 1957, n. 3380, in Giust. civ. Mass., 1957, p. 1263. Si ritiene inoltre congrua ai fini dell’applicazione della norma anche la conciliazione avvenuta davanti all’Ufficio Provinciale del Lavoro: cfr. Cass., 23 agosto 1993, n. 8899, in Giust. civ. Mass., 1993, p. 1318.

([8]) Rectius: del giudizio, inteso questo come insieme di tutti gli atti nei quali si concretizza la funzione, propria del giudice, di applicare il diritto al fatto preventivamente accertato. Il concetto, pertanto, viene sostanzialmente a coincidere con quello di processo. Cfr. Cass., 23 gennaio 1960, n. 60, in Giur. it., 1961, I, c. 43, con nota di F. U. DI BLASI (Appunti in tema di onorari agli avvocati e di perizia contrattuale), in cui si ammette in modo indiretto l’applicabilità dell’art. 68 alla transazione conclusiva di un arbitrato.

([9]) Non si reputa inoltre necessario che l’intesa sia conclusa con l’assistenza dei patroni : cfr. Cass., 19 giugno 1964, n. 1585, in Giust. civ. Mass., 1964, p. 721; Cass., 11 giugno 1994, n. 5705, in Rep. Foro it., 1994, voce Avvocato, n. 114.

([10]) Cfr. Cass., 23 gennaio 1960, n. 60, cit.

([11]) Non si deve però tralasciare la maggiore ampiezza della nozione offerta dal codice, che attribuisce al negozio anche una mera funzione preventiva della lite.

([12]) Si pensi alla nullità non rilevata d’ufficio, o all’annullabilità non eccepita dalla parte che vi aveva interesse (l’annullamento del contratto di transazione può infatti essere richiesto anche in via di eccezione: cfr. Cass., 5 gennaio 1980, n. 54, in Rep. Foro it., 1980, voce Contratto in genere, n. 257): se nonostante i suoi difetti, l’atto adempie ugualmente alla propria funzione transattiva del giudizio, le esigenze di tutela presupposte dalla norma sorgono comunque, giustificandone l’applicazione.

([13]) Non è invece permesso al debitore solidale di sottrarsi all’applicazione dell’art. 68 eccependo l’invalidità del giudizio transatto: cfr. Cass., 25 ottobre 1957, n. 4125, in Giust. civ., 1958, I, p. 46.

([14]) Secondo un orientamento consolidato, infatti, qualora l’accordo tra le parti non comprenda anche le spese processuali (sempre salvo il disposto dell’art. 92, comma 3°, cod. proc. civ., in tema di conciliazione), su di esse deve disporre il giudice in base al criterio della c.d. soccombenza virtuale, “delibando il fondamento della domanda per decidere se essa avrebbe dovuto essere accolta o rigettata nel caso in cui non fosse intervenuta la cessazione della materia del contendere” (Cass., 20 novembre 1980, n. 6183, in Rep. Foro it., 1980, voce Spese giudiziali civili, n. 30; Cass., 19 marzo 1986, n. 1899, ivi, 1986, voce Avvocato, n. 103; Pret. Bolzano, 7 giugno 1986, in Resp. civ. e prev., 1986, p. 571. In dottrina, cfr. B. SASSANI, Per una chiarificazione della formula «cessazione della materia del contendere», in Temi rom., 1982, p. 510).

La relazione di assoluta incompatibilità tra soccombenza e definizione transattiva della lite (sulla quale v. anche Cass., 21 dicembre 1982, n. 7057, in Giust. civ., 1983, I, p. 781), contribuisce, inoltre, ad individuare nell’elemento del consenso il reale fondamento dell’art. 68. La corresponsabilità delle parti, infatti, anche se limitata al solo profilo esterno dell’obbligo (art. 1298, comma 1°. cod. civ.), sembra rappresentare nient’altro che una immediata conseguenza del confluire di interessi originariamente contrapposti in uno scopo comune.

([15]) Cfr. ad esempio Cass., 13 luglio 1971, n. 2250, in Giust. civ., 1972, I, p. 370. La pronuncia si pone in linea col costante orientamento giurisprudenziale che attribuisce natura giudiziale non solo alle prestazioni consistenti nel “compimento di veri e propri atti processuali”, ma anche a quelle eseguite in diversa sede, purché preordinate all’espletamento di “attività propriamente processuali o ad esse complementari”.

([16]) A parte la diversa sede di stipulazione, l’accordo transattivo stragiudiziale determina gli stessi effetti di quello concluso in iure, comportando normalmente una dichiarazione del giudice relativa al venir meno della materia del contendere. Cfr. F. FERRONI, Transazione e cessazione della materia del contendere, in nota a Cass., 12 luglio 1984, n. 4079, in Giust. civ., 1985, II, 1, p. 2023.

In particolare, rispetto al caso in commento, si ritiene opportuno ricollegare la cessazione della materia del contendere alle dichiarazioni rese dalle parti in udienza e non già alla precedente transazione stragiudiziale. Per quest’ultima, infatti, sarebbe comunque valso il limite di cui all’art. 1967 cod. civ.

([17]) Occorrerà a tal fine accertare la presenza di reciproche concessioni (aliquid datum et aliquid retentum) intervenute tra le parti (art. 1965 cod. civ.). Per un esame specifico del rapporto tra conciliazione e transazione cfr., tra gli altri, A. CARRATO, Le attività conciliative nel contenzioso civile, Milano, 1993, p. 24 ss.

([18]) Cfr. Cass., 26 giugno 1958, n. 2286, in Giust. civ., 1958, I, p. 1164; Cass., 13 luglio 1961, n. 1681, in Giust. civ. Mass., 1961, p. 737.

([19]) Così. C. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, II, Torino, 1991, p. 288.

([20]) Qualora si sia al di fuori della transazione in senso stretto, tale dimostrazione può essere data anche per mezzo di testimoni, non essendo operante il principio di cui all’art. 1967 cod. civ.: cfr. R. DANOVI, op. cit., p. 199.

([21]) Cfr. Cass., 26 giugno 1958, cit.; Cass., 10 novembre 1990, n. 10834, in Rep. Foro it., 1990, voce Avvocato, n. 117. È lecito ritenere che la medesima soluzione sia estensibile a tutti gli altri casi di estinzione del processo, nonché all’ipotesi di cessazione della materia del contendere per rinuncia all’azione.

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